Le Scuole Iniziatiche dell'Antica Saggezza MARTINISMO
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Il Sepher Yetzirah e la Meditazione: Abulafia di Danilo Semprini
Il lavoro che segue è tratto da uno studio di analisi sulla lingua del Sepher Yetzirah presentato alla Università di Roma "La Sapienza" nell'anno accademico 2000, cattedra di "Filosofia del Linguaggio".
Introduzione alla meditazione Ci sembra necessario analizzare il tema della meditazione, anche se non in maniera approfondita, giacché in generale, contribuisce a rendere comprensibili i significati codificati nel Sepher Yetzirah e, più specificatamente, mostra come il simbolismo espresso in “Lettere” e “Sephiroth” affondi le proprie radici in uno stadio profondo della coscienza. Per questa analisi ci riferiremo sinteticamente all’opera e alle idee di Abulafia, famoso mistico medievale, che per primo descrisse con chiarezza le tecniche estatiche rimaste segrete per secoli e la cui origine va ricercata in quella tradizione occulta chiamata “Opera del Carro”. In senso generale, la meditazione consiste nel riflettere in maniera controllata: decidere la direzione che il nostro pensiero dovrà seguire in un certo tempo. Per brevità, analizziamo solo due delle tecniche fondamentali della meditazione, quella che fa uso della “visualizzazione” e la recita “mantrica”.
La “visualizzazione” è una tecnica che consiste nell’evocare un’immagine nella mente e mantenerla fissa. Nella meditazione Ebraica è conosciuta come l’incidere. L’immagine è fissata nella mente come se vi fosse profondamente incisa in modo da poterla osservare lungamente fino ad arrivare alla capacità di evocarla autonomamente. La tecnica si sviluppa in due fasi, in un primo momento è una meditazione con seme (la lettera), in un secondo momento si trasforma in meditazione senza seme (la lettera è sostituita dalla capacità di evocarla). La tecnica meditativa di “incidere”, opera in simbiosi con un’altra conosciuta come “tagliare”. Quest’ultima consiste nel togliere ogni altra immagine mentale intorno al seme della meditazione. Il Sepher Yetzirah sottintende queste due tecniche nei passi che fanno riferimento a Chatzivà (il taglio) e Chakikà (l’incisione). “Ventidue Lettere: le incise, le intagliò, le soppesò, le permutò, le combinò e con loro formò l’anima di tutto il creato…” Anche se questa tecnica può essere eseguita con qualsiasi oggetto i cabalisti hanno sempre usato Lettere o Nomi Divini. Numerosi testi parlano di un tipo di meditazione chiamata “yichudim” o “unificazione”. Nella maggioranza dei casi, il metodo consiste nel visualizzare i Nomi di Dio e di permutarne le lettere. La tecnica è articolata in diversi livelli che conducono a stati di coscienza sempre più avanzati. Accenniamo all’ultimo stadio, perché ci sembra un buon esempio per comprendere la profonda sintesi tra le ”Lettere” dell’alfabeto ebraico e la coscienza; e lo facciamo citando un interessante passo di Aryeh Kaplan, scomparso nel 1983. “L’ultimo livello è raggiunto allorché le lettere sono percepite come esseri viventi, come se ciascuna di queste fosse una creatura angelica. Si acquisisce allora una coscienza unica della loro forza vitale, della loro energia spirituale, del loro significato e del flusso di energia che passa da una all’altra.” La citazione descrive la forte presenza degli elementi sia figurativi sia semantici che la lettera porta attraverso la sua esterna oggettualità. Anche se non possiamo, dalle nostre attuali conoscenze, affermare che lo specifico portato simbolico delle lettere ebraiche sia innato nell’animo umano, come un archetipo Junghiano, non possiamo scartare a priori questa ipotesi. Un’altra delle forme classiche della meditazione è la cosiddetta “meditazione mantrica. “Mantra” è un termine orientale che sottintende una parola o una frase ripetuta per un certo lasso di tempo. Uno degli effetti immediati di questo tipo di meditazione è il rilassamento del corpo. Gli psicologi hanno sviluppato forme non religiose di meditazione mantrica per indurre nel paziente una “risposta di rilassamento”. E’ stato studiato anche un sistema completo, la SCM (Standardized Clinical Meditation), per utilizzare questo tipo di meditazione in un contesto clinico. Anche se la meditazione mantrica non è quella più espressiva dell'ebraismo, ci sono dei chiari riferimenti del suo uso nella Qabalah, soprattutto in associazione con la “Bittul ya yesch” (lo svuotare per riempire), una sorta di meditazione metafisica assai simile a quella in uso nel Vedanta Advaita.
Il pensiero di Abulafia Per arrivare alla rivelazione divina Abulafia utilizza quelle tecniche tramandate occultamente dalla “tradizione” e descritte nel Sepher Yetzirah, divenendo il rappresentante più espressivo della Qabalah estatica. Grazie a lui molto sappiamo della più antica e segreta tradizione della Qabalah meditativa, che possiamo riferire soprattutto all’Opera della Merkavà. Analizziamo, ora, il pensiero di questo mistico medievale e successivamente, la sua tecnica estatica. Il suo scopo è di dissigillare l’anima, sciogliere i nodi che la legano. Quando i nodi sono sciolti ogni forza scorre, secondo la propria natura, alla sua origine; origine che è sempre unitaria e priva di ogni duplicità, e dove la molteplicità è compresa. Lo scioglimento è quindi un ritorno dalla molteplicità e dalla separazione, all’unità originaria. Questo tema, simbolizzato dallo “scioglimento dei nodi”, è una caratteristica che ritroviamo anche nel Buddismo Tibetano come simbolo della liberazione mistica dell’anima dai legami sensuali. Nel linguaggio di Abulafia questo simbolo vuole ricordare che ci sono determinate barriere che separano la vita individuale dell’anima umana dalla corrente della vita cosmica: esiste una sorta di diga che trattiene l’anima nel suo naturale dominio e le impedisce di essere trasportata dalla corrente del divino fino a conseguire la conoscenza. I “sigilli” impressi sull’anima, paradossalmente, sono ad essa necessari affinché non sia inondata, senza un’iniziatica preparazione, dalla potenza divina. Possiamo paragonare quanto egli chiama, con un linguaggio adatto ai suoi tempi e alla fede religiosa, “i sigilli dell’anima” ad una barriere protettiva che l’uomo ha per difendersi contro ogni stato della coscienza che esuli dal suo normale vissuto. Questi “i sigilli”, secondo Abulafia, proteggerebbero il normale funzionamento dell’esistenza, e sono generati dalle difese proprie della costituzione umana, giacché l’uomo nel suo quotidiano, percepisce il mondo esterno ed impregna l’anima di immagini e forme sensibili. L’anima, quindi, comprendendo e facendo propri gli oggetti del mondo naturale, accoglie in sé le loro forme, imprimendosi di “finito” e “limitato”. La normale esistenza dell’anima è perciò chiusa in confini determinati dagli affetti e dalle percezioni sensibili. Fin quando sarà piena di queste forme, non potrà pervenire alla visione delle cose divine e delle pure forme spirituali. Se si vuole che la vita divina irrompa nell’anima, senza che quest’ultima sia sopraffatta da tanta potenza, si deve trovare una “Via” che consenta di raggiungere una tale meta con metodica sicurezza. Tutto ciò che occupa l’IO naturale deve essere eliminato o trasformato, affinché i lievi contorni della realtà spirituale possano apparire attraverso il guscio delle cose naturali. Abulafia indica l’oggetto delle sue meditazioni, spiegando in maniera molto interessante i motivi della scelta. Per evitare che l’anima sia rapita da oggetti di meditazione che abbiano una collocazione nel mondo manifesto da cui in verità la meditazione dovrebbe allontanarci, è necessario cercare un oggetto assoluto, vale a dire un oggetto tale che assolva il compito di far sorgere nell’anima una vita più profonda e la liberi dalle forme naturali; ovvero un oggetto che possa assumere il più alto significato ma non ne abbia uno proprio. Abulafia ritiene di aver trovato un tale oggetto nella combinazione delle lettere dei Nomi Divini, giacché rappresentano qualcosa di assoluto e trasferiscono il più alto significato al mondo. Partendo da questa idea centrale, costruì un sistema che chiamò H’ocmâ ha-tziruph, cioè, “Scienza della combinazione delle lettere”. Combinazioni di lettere che non necessariamente devono avere un senso, anzi, è più opportuno che non ne abbiano, perché in tal modo non possono distrarci. Va detto, però, che per Abulafia le combinazioni delle lettere dei Nomi Divini, non sono mai prive di senso: egli fa sua la teoria cabalistica secondo la quale la parola è l’essenza del mondo, ed ogni cosa ha esistenza solo in virtù della sua partecipazione al grande Nome di Dio, che si manifesta in tutta la creazione. Si tratta, in altre parole, di suscitare nell’anima umana un particolare stato di coscienza rinnovato per mezzo di metodiche meditazioni, qualcosa come un movimento armonico del puro pensiero, sciolto da qualsiasi oggetto sensibile. La scrittura, mikhtav, la pronuncia, mivtà, ed il pensiero, machshav, costituiscono i tre gradi consecutivi della meditazione. Tutti hanno le loro “Lettere”, nel senso che queste sono presenti in una forma sempre più spirituale e costituiscono i mezzi che inducono l’estasi. Altri quattro elementi sono presenti nella meditazione di Abulafia: balzare, saltare, scalpellare, incidere. “Balzare” (dilug) significa operare mantenendosi all’interno di una delle tecniche cabalistiche. Quando invece si passa da un sistema all’altro si afferma che si sta “saltando”. Per quanto riguarda la seconda coppia di termini, possiamo affermare che raggiunto un elevato livello meditativo, l’anima, non più nascosta nella prigione delle facoltà fisiche, emerge nel regno spirituale. In termini laici, potremmo dire che si conquista un grado molto alto di coscienza. “Spaccare” significa riuscire ad entrare coscientemente nel vissuto di quel momento, mentre si è ancora in uno stato d’estasi. “Incidere” consiste nel riuscire ad imprimere ciò che è accaduto nel momento estatico.
Tecniche estatiche in Abulafia L’uso dei Nomi Divini ha un ruolo fondamentale nel sistema di Abulafia. Si tratta di una tradizione che egli considerava chiaramente derivata dai patriarchi e dai profeti. Il passo della Torah dove è riportato che Abramo “Invocò il Nome di Dio“ (Genesi, 12:8), è interpretato da tutti i commentatori con l’estensione di preghiera, Abulafia, al contrario, prende alla lettera il versetto, affermando che Abramo pronunciò effettivamente il Nome di Dio e grazie a questa pratica, era in grado di raggiungere gli stati mistici più elevati. Il Sepher Yetzirah, tradizionalmente attribuito ad Abramo stesso, sembra testimoniare questa interpretazione. Esso dichiara: “Quando Abramo nostro padre venne, guardò, vide, indagò e comprese, scolpì, combinò, forgiò. Apparve su di lui il Signore di tutto…”. In questo piccolo passaggio del Sepher Yetzirah le tre parole chiave testimonierebbero l’attività estatica di Abramo che operava sulle lettere del Nome Divino. Secondo l’opinione di molti cabalisti questi processi hanno attinenza con la permutazione delle lettere, ed è proprio da queste tecniche che Abulafia deriva gran parte del suo sistema. In una serie di passi, questo cabalista sostiene che i Nomi Divini siano incisi nell’anima dell’uomo; ora, giacché l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio e, come anche il Sepher Yetzirah sostiene, in piena armonia con il mondo ed il tempo (mondo , anno), è ragionevole presumere che il processo di combinazione operato sui Nomi, abbia un effetto simultaneo anche sull’anima umana. Nella pratica d’Abulafia le lettere appaiono a tre livelli: scrittura, discorso (canto o pronuncia) e pensiero. Si deve operare quindi con i Nomi di Dio, prima scrivendoli, poi pronunciandoli ed infine riproducendoli mentalmente. “Prendi la penna, la pergamena e l’inchiostro e scrivi e combina i Nomi” (Abulafia in “Tesoro dell’Eden). “Quando la mezzanotte era passata, la penna era nella mia mano e la carta sulle mie ginocchia” (Abulafia in “Le Porte della giustizia”). Il primo livello, che coinvolge il mistico nella scrittura e nei calcoli di permutazione delle lettere, è quanto raccontato nel Sepher Yetzirah con la “regola delle Pietre e Delle Case”. Il secondo livello, quello della recita verbale, è più complesso e va analizzato nelle sue diverse fasi. Chi ricerca l’esperienza mistica deve cantare le lettere e la loro vocalizzazione. Deve mantenere un ritmo fisso di respirazione. Deve muovere la testa in accordo con la vocalizzazione delle lettere pronunciate. Deve tenere le mani in una precisa posizione, è quella tenuta durante la benedizione sacerdotale.
Il terzo livello contempla la riproduzione e la combinazione mentale dei Nomi Divini; presuppone, quindi, l’abbandono totale dell’oggetto fisico della lettera per giungere a valicare il confine della coscienza.
Riteniamo sia una cosa interessante proporre alcuni passi dei commenti originali di Abulafia sulle tecniche di meditazione ripresi dalla sua opera “Tesoro dell’Eden nascosto”.
“Bisogna che si prendano le lettere…, prima come sono tracciate nella forma scritta, che è una cosa esterna, per combinarle. Poi, deve prenderle dal libro con le loro combinazioni e trasferirle alla propria lingua e alla propria bocca, e pronunciarle finché le sappia a memoria. Dopo, le prenderà dalla bocca [già] combinate e le trasferirà al cuore, e rivolgerà la mente a comprendere che cosa gli sia mostrato in ogni lingua che conosce, finché non resti nulla di esse”. La forma esterna della lettera lascerebbe pensare all’idea in Abulafia del concetto moderno di arbitrarietà. Riteniamo che, nel passo citato, il mistico non intenda affermare che il “segno” linguistico sia diviso in una parte esterna, per noi il significante, ed un’interna, il nostro concetto di significato. Il contesto in cui questa affermazione è inserita, ci sembra autorizzare l’affermazione che le lettere utilizzate nel processo estatico possano essere apprese a più livelli, corrispondenti ai tre che abbiamo individuato come le tappe fondamentali della pratica meditativa. Dire quindi che la forma scritta delle lettere sia una cosa esterna, è da accreditare al fatto che l’uomo apprende a questo primo livello con le parti più esterne dell’anima, vale a dire, i sensi e la razionalità Nel passo citato è presentato un esplicito processo di spostamento verso l’interno: le lettere del Nome Divino subiscono una purificazione mediante la quale sono trasformate da lettere tangibili, esterne, a lettere interiori, interne. Questo percorso è finalizzato a stimolare la coscienza verso il graduale abbandono dello stadio del quotidiano, legato alle funzioni sensoriali dell’uomo e all’attività razionale. Abulafia, in alcune tecniche, combina le lettere di diversi nomi divini contemporaneamente. Dal suo scritto “Tesoro dell’Eden nascosto” apprendiamo anche che bisogna combinare le lettere di un dato Nome, e poi combinarle con quelle di un altro Nome. I Nomi più utilizzati da Abulafia sono il “Nome di Settantadue Lettere”, le cui combinazioni sono descritte nel suo “Libro della Vita eterna”, ed il “Tetragramma Divino” YHVH, discusso in “Luce dell’intelletto”.
L’utilizzo del Tetragramma per la meditazione è esposto in “Or ha-sekhel” (Luce dell’intelletto) e consiste nella combinazione delle quattro lettere del Nome di Dio, Yod, He, Vav, He, con la lettera Aleph, e nelle sue successive variazioni attraverso le 5 vocali fondamentali. Il passo che segue estratto da “Luce dell’Intelletto” fornisce in dettaglio questi passaggi. “Quando incominciate a pronunciare la lettera Aleph con una qualunque vocale, questa esprime il mistero dell’unità (Yichud). Dovete dunque pronunciarla in un solo respiro e non di più. Non interrompete il respiro in nessun modo finché non abbiate completato la pronuncia dell’Aleph. […] Nello stesso tempo cantate l’Aleph o qualunque altra lettera stiate pronunciando, mentre visualizzate la forma del puntino vocalico. La prima vocale è il Cholem, sopra la lettera. Quando cominciate a pronunciarla rivolgete il vostro viso ad est, senza guardare su o giù. Dovreste essere seduti, indossando vesti bianche e pulite sui vostri vestiti, oppure indossando il vostro scialle da preghiera (Tallit) sopra la testa incoronata dai Tefillin. Dovete rivolgervi ad est, poiché è da quella direzione che la luce emana nel mondo. Con ciascuna delle 25 paia di lettere, dovete muovere la vostra testa correttamente. Quando pronunciate il Cholem, incominciate col dirigervi ad est. Purificate i vostri pensieri e, mentre espirate, sollevate la testa poco a poco fino a che alla fine del respiro sarà rivolta in avanti. Dopo aver terminato, prostratevi a terra. Non interrompetevi tra il respiro associato con l’Aleph e quello associato con l’altra lettera della coppia. Potreste tuttavia fare un solo respiro che può essere più o meno lungo. Tra una coppia di lettere e l’altra potete respirare due volte senza emettere suoni, ma non più di due; se desiderate respirare meno di due volte potete farlo. Dopo aver terminato ciascuna serie, potete respirare 5 volte ma non di più. Se desiderate respirare meno, potete farlo. Se cambiate qualcosa o commettete qualunque errore nell’ordine di qualunque serie, ritornate all’inizio della serie stessa. Continuate finché non la pronunciate correttamente. Così come pronunciando il Cholem guardate diritto davanti a voi, quando pronunciate il Chirik guardate in basso. In questo modo attirate verso il basso la potenza superna, legandola a voi. Quando pronunciate lo Shuruk non muovete il capo in alto o in basso. Al contrario, muovetelo in avanti (senza abbassarlo ne alzarlo). Quando pronunciate lo Tzerè muovete il capo da sinistra a destra. Quando pronunciate il Kametz muovetelo da destra verso sinistra. In ogni caso, se vedete qualunque immagine dinanzi a voi prostratevi immediatamente. Se udite una voce, forte e sottile, e desiderate capire cosa sta dicendo, rispondete immediatamente così: “Parla o mio Signore, poiché il tuo servo ti sta ascoltando” (1 Samuele 3:9). Non dite nulla, ma tendete l’orecchio per udire ciò che vi sarà detto. Se provate terrore e non potete sopportarlo, prostratevi immediatamente, anche nel mezzo della pronuncia di una lettera. Se non vedete o udite nulla, non usate nuovamente questa tecnica per tutta la settimana. E’ bene praticarla una volta la settimana, in modo che “corre e ritorna”. Poiché riguardo a ciò è stato stabilito un patto. (Sepher Yetzirah). Cosa posso aggiungere? Quanto ho scritto è chiaro. E se siete saggi capirete l’intera tecnica. Se sentite che la vostra mente è instabile, che la vostra conoscenza della Qabalah è insufficiente, o che i vostri pensieri sono legati alla vanità del momento, non osiate pronunciare il Nome, affinché il vostro peccato non diventi più grave. Tra la pronuncia della Yod e quella della He potete respirare 25 volte, non di più, ma non dovete interrompervi, sia con la parola sia col respiro. Lo stesso procedimento è valido tra la He e la Vav e la He finale. Tuttavia, se desiderate respirare meno di 25 volte, potete farlo”.
tratto dal sito della Loggia "Har Tzion Montesion"
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